di Stefano Falotico
Da anni, con protervia e fine, intima arroganza, me ne fotto… sia dell’organza che degli orgasmi. Questo mio atteggiamento, che i superficiali giudicano schivo e a me schifano, è il ritratto simbiotico della mia creaturale aderenza al temp(i)o mio ignoto ove, senza soluzione di continuità, un giorno la mia mente si rompe in eruzioni odoranti il mio adorabile, olfattivissimo malessere da crollato in lacrime colanti ma sempre più remoto dalla società che incolla, mentre del domani non v’è certezza e comunque continuerò estenuatamente a far i cazzi miei, privilegiando il gioco da “idiota” di colui che, barricato in orgogliosa trincea, preferisce vivere rintanato, lontano dal trambusto, dalle rivalità ché scatenan solo fratricidi e guerrafondaie gelosie, coccolandomi nell’armistizio beato a meno che qualche stronzo appunto non rompa e, anelando a scalfire i miei collaudati equilibri, con la sua fottuta superbia da figlio di puttana tanto “corazzato” a scoraggiarmi perché sbuffo, scoreggiandogli, mi voglia indurre a combattere… Io combatto solo per il mio petto battermi, perché preferisco la nudità espettorata ai caporali e al generale… porcile di massa, ottenebrandomi nelle albe chete perché sol allora m’assonno in ancor neri sogni, masturbatorio poi, in tali stupendi incubi, gracchio il mio pen(ar)e in stile mansueto allo scroscio del dolce su e giù che se la mena in modo disturbante e a me dunque piacevolmente cazzeggiandovi. A sfancularvi con orrida prosopopea da uomo che del mondo è stufo. Nella mia dimora, non uso le stufe, mangio però le caldarroste durante il mio eterno autunno. Sì, il vostro capitalismo, soprattutto ideologico, ha partorito i vostri esseri informi e io invece son qui a informarvi che tal vostro comportamento porterà soltanto ad altri crematori forni e ad anime ammalate di povertà. Oh sempre state a fornicare, a ficcar la torta e guai, miei schizzinosi tanto caldamente schizzati, se le (ciam)belle non riescon col cubo. Tanto v’entrate con la “dolcezza” ipocrita da “uomini” di “burro”. Sì, sento “calore” e affett(at)o da parte vostra, da parte mia solo la ciliegina rossa, vampiristica di non potermi levar di torno. Userete, a mia tortura, il torchio ma io son sempre tornante ad accerchiarvi, ad abbrustolirvi tanto da lasciarvi accecati tutti e di ghiaccio, così non lancerete neanche più un sasso, miei stoccafissi di questo paio di palle. Io sono il mitico impalatore! Io sono lanceolato ma non morto, ho perduto lo slancio eppur mordo. Ti fissi col lavoro. Andate pure a lavorare, vi serve come copertura per ogni squallida porcata da squali. Io amerò sempre una pizza capricciosa, mangiata al tuo viso di pomodoro da gommosa mozzarella, alle tue belanti bellocce che “condisci” di olivine “piccanti, leccandomi poi le labbra quando ti presenterò il mio Conte Dracula. Sì, non lascio mai i conti in sospeso. E ora t’impalo, così impari. Io sono colui che cattivo è diventato di parimenti carne al sangue. Se non ti sta bene ove t’ho seppellito, pagami e, di gran cordoglio, sotterrerò di nuovo l’ascia di guerra per piazzartela violentissima in pancia. Sentite condoglianze? No, dammi almeno i soldi, mio pomposo, per pagarti le “onorificenze” di tante funebri pompe. Sì, all’Inferno, il Diavolo, che son sempre io, Vlad, non ti spompinerà, te lo taglierà del “lutto”.
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