La fine, il nubifragio, l’ansia, la libertà mia che, sotterranea, s’è sempre alimentata di poesia espressa, cari repressi. Non opprimetemi, altrimenti (s)premerò.
Stringe! Il tempo, la vecchiaia. La nuda essenza, la paura, la fine. Un viaggio a ritroso, solfeggio, soffice nuoto fra le onde della mia anima poderosa, e piango, tumefatto da tanti orrori, rinsecchito, ischeletrito, guascone smorzato e non più libero. Scheggiato e in burrasca, strambo, mutante, in questo solito liquame sociale in cui tutti millantano e invero non sanno. Svanisco, io, (in)vano, dove vado se non sdraiarmi sui miei vanitosi vaniloqui che carezzo come una figa morbida sul divano? Rielaboro tante storie di miei (trasc)orsi, di lupe e lampi fra voi creature abbacchiate, di come arrabbiato m’accigliai spesso e, senza sesso, me ne fregai in bello sfog(gi)ar sol chi ero e sono, per quanto possa apparirvi triste, ancora e disancorato da tutto quanto, perso fra abbazie medioevali, incantato dalle catene di come mi (s)lego senza monta(ggio), a letto mi (s)tendo, pauroso di star in mezzo alla gente, non la capisco, soffro piacevolmente la stranezza del cazzo mio, nottambulo e variegato d’angosce che sanno sol sbuffar(ti), in quanto preferisco esser buffo a esser uno qualunque. Non disperate per me se, in una chiesa gotica del mio oscuro, acceso “sacrilegio” alla vita vostra, da me ripudiata, con calma fischietto nei corridoi del mio eremitico star appollaiato come Dracula nel cas(tell)o della mia verità remota. Questa è e sempre sarà la mia (dim)ora, abbine cura, tu che m’offendi, e non volermi più (os)curare. Qui, giaccio e gracchio, sempre giacerò e sopra tutti non sarà soggiaciuto alle vostre morti ma tacciatemi d’esser tocco e alzerò i tacchi della mia superbia ché (non) si taccia, da conte anche Tacchia, e io non taccio, in quanto dovete tacere. Statevi zitti, altrimenti vi accetterò di accette. Accettami. Dammi l’aglio e non l’aceto, dammi il paletto e te lo ficcherò nel culetto. Io son raro e prezioso come l’(av)or(i)o. Essendo quel che sono, non avendo mai sonno da non morto, non lavoro. Sì, son stanco di star in mezzo ai vostri livori, eppur vi salverò e mi salvi chi (non) può. Sto “lav(or)ando” per voi.
Amen(o) che…
Ti menerò e me la men(t)o… Vivo sol di alt(icci)a mente, miei dementi.
Non sono autistico ma ho la corazza anche quando giro in carrozza col mio servo-autista che obbedisce, prendendo in giro le tue cozze poiché sono-non sono in (ca)muffa ma vero come iddio a cui pregate in autom(atic)i.
Datemi retta, storti. Le vostre vi(s)te mi han fatto molti torti e io ritorno, poi ti ritorco.
Te lo dico una volta, non voltarti. Io volo.
Accendiamo una torcia.
Attorcigliamo quella lì, ché mangia sol le torte.
Non è automatico capirmi subito, non vivo dei vostri vuoti pneumatici.
Insomma, insonnia.
Io sono Amleto. Dracula solo se ti voglio rompere il cu(cu)lo.
Di mio, ho molti cont(ent)i in sospeso. Che cazzo ridono?
Sono il Conte e non possono raccontarsela.
Stessero stesi e mi lasciasser esser me stes(s)o.
Che son queste contese?
Meglio il cont(us)o.
Contento io, comunque i conti (non) tornano.
di Stefano Falotico
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