di Stefano Falotico
Ode alla nitida cupezza, oh, brezze, sospiratemi languide carezze a libagione dei miei fervidi brusii iridescenti del cuore, e anima rapisciti altrove!
Non so, in molti tentarono di cambiarmi, di cannibalizzarmi, di distorcere la mia vista affinché al tedio loro, camuffato in risate brillanti, ah ah, m’attenessi, soggiacessi, soggiogatissimo, al vile consumismo della carne avvinto, prodigo e mansueto, ah ah, ai loro programmi scoppiettanti, costernato ohibò, mi piegassi, ah ah, portatori solo di ansia, di lotta isterica, di mio nauseabondo ridervi a gracchiare la loro frenetica frivolezza. Così, ammantato di mia indelebile aura, passeggio tra le foglie del tempo e m’inferocisco di sottilissima violenza, amante del mio maestro Poe Edgar Allan, con in mano il guinzaglio d’un cane, forse un alano, ché son io stesso nell’abbaiare contro ogni museruola della loro predominatrice, ah ah, voluttà, questa sì volenterosa, ah ah, di castrarmi nel mio ululato quando, al sorger del più buio plenilunio, mi trasformo coloritamente, ah ah, in un cattivo lupo, e addento le mie tenaglie a mo’ di ruggine incarnata nella scatenata, mandibolare morsa stavolta di nuovo evolutami in ragno. Un ragno dispettoso che piazza trappole accerchianti, brulicante poi a cicala nello sfiorar, con le dita dei miei invisi(bili) occhi, le donne più a leccarle di tutto flebile, ah ah, invero assai potente suggere, annusare e mio inventato, umido anulare, eh eh, da matto qui umano, ah ah, dell’abbacinarmi dentro in bacini sognanti il mio caracollar da orgasmico, onanistico gondoliere. Ed è un inafferrabile piacere che voi mai acciufferete. Il gusto della proibita fantasia eppur così chiarita dal mio volto beffardo di tutto plateal rider sotto i mie baffetti. Mi porgerete degli sguardi simpatici, ah ah, a maniera, oh, che danni i manierismi del vostro comando, nel buffet(to), e io rincarerò la dose in tal caso da cavallo.
Stallone nottambulo, unicorno di purezza (in)immaginabile, roteando di corse campestri d’adesso scorrazzante cerbiatto. Ché del putiferio del vostro materialismo tangibile da mer(l)i allocchi, sempre miranti le loro albicocche, uh uh, io non so che farmene, se non inventarmi una dama, nel mio gioco da re degli scacchi in arrocco (in)difendibile, su danzar di mia regina, ih ih, in tango con lo squallido, virile, ultimo passo da strapparmi il mio tanga di uomo a metà della mia mela capricciosa, succhiante il midollo spinale dell’unica ragione per cui respiro, il fregarmene un cazzo.
So che questo mio distaccato, (in)differente atteggiamento vi disgusta, ma debbo ammettere che, per me, è un inesausto, inaudito scompisciarmelo di (im)palpabile sbattervela tutta… la verità della vostra sporca faccia e della mia ora fo(r)ca. Monaca di cupo cappio al collo, eppure inculo.
Ahia, ahia.
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