S’infervora ancora il cuore, cammino, corroborato di sogni coloriti, poi scolorisco, quindi in viso scurito e, tempestato da mille serpeggianti, abrasive incognite graffianti, non riesco a svagarmi, piangendo di reminiscenza in quel che non fu(i).
Ma non cambio, adoro la notte e il suo manto frusciante, l’odore scalpitante dei miei respiri sofferti, l’odore nitrente delle mie angosce scivolanti, le mie fantasie e l’estasi proibita del mio masturbatorio rendermi sempre svanito, nel vento, un uomo nudo che passeggia nel tempo, scalfendolo nei ricordi del mio cuore e nel fantasma che non c’è, passeggia cheto indietro e, bramandosi in tant’avventure, inventate anche, sigillato nei suoi crepuscoli, autunnale sparisce, ritorna in sé e ride, euforico s’emoziona e, fra una commozione, pure cerebrale, e l’altra… che mi manda a fanculo, sogghigno, iridescente non (r)esisto, mi confondo tra le folli(e), ma sto qua, cullato dalla complicatezza delle mie rochezze esistenziali, (non) parlo, basito, rimango di sasso, assassinato nell’anima che balbetta sinuosa nelle movenze feline di me, me e solo…, felpato.
Poi, muoio ancora, e domani rinasco, come se il tempo mai m’avesse violato, via (s)vol(t)o, scrosciante nella mia storia e, gemendo…, sono un commediante di queste rosse luci del mio cuore noir e polar(e).
Malinconico, brindo al rock, indosso il mio Sailor da Cuore selvaggio.
E non cambio, non invecchio, amo forsennatamente, per sempre tale e quale a come nacqui. Perché non voglio morire come tutti ché, passando gli an(n)i, crepano nell’anima e, poltrendo, non sanno più gioire, tutti assillati da donne e dal loro nido di asini all’asilo, una “materna” carezza da borghesi annacquati, “avvinazzati” nei divani dell’esistenza vana, corazzatisi di cori pieni di polemiche scorie, screpolati dietro false dolcezze e la retorica dell’illudersi di essere quando già non sono, da tempo non esistono, sono sol resistenti, nella retorica giacenti.
A tale morte non soggiaccio.
Seppellitemi.
Ma, amico, prima di lasciarti, voglio d(on)arti questa mia lettera.
Abbine cura e, quando vorrai sapere cos’è la vita, rileggila…
Voglio che tu la serba con cura. Io, invece, mi son sempre trascurato e non ho mai creduto alla Curia, neanche alle cure di Battiato, sono solo belle parole e tanta musica consolatoria ché, se sei così, cambiar (non) puoi.
Poi, forse sono un poeta.
Ma, prima di andarmene, voglio raccontarti qualcosa che possa farti sorridere.
L’altro sabato, ero a un bar, fuori città. Stava chiudendo e il gestore s’avvicina al barista. Mi ammicca e dice di conoscermi. Lui gestisce solo il locale e non serve caffè, eppure mi ha sempre scorto, da dietro l’angolo, mentre sorseggiavo.
- Ehi, che fai? Non offri queste paste al signore? Tanto, fra poco chiudiamo e, domattina, servono dolci freschi. Oramai, questi dolci non li prende più nessuno.
- Signore, possiamo offrirle le rimanenze?
- Sono ancora commestibili?
- No, sono scadute. Ma sono velenosamente zuccherose per addolcire un lieto, lento suicidio.
- Ottime.
- Voleva dire “Ottimo”, giusto?
- No, volevo dire ottime. Queste paste son migliore della peste.
- Che sta dicendo?
- Dico che nulla ha senso, e io ho le corna. Anche questo cornetto andato a puttane.
Quegli occhi tuoi cominceranno piano
a guardare indietro un tempo già lontano,
senza parlare e senza più recriminare
su ciò che si poteva fare
e che non è successo mai.
Ma qualche cosa rimane
negli occhi tuoi.
E il volto poi si scoprirà segnato
da tante storie che nessuno ha raccontato
senza finale: una commedia musicale
di solitudini a Natale
con chi non ti capiva mai.
Ma c’è una luce speciale
negli occhi tuoi.
Tu cambierai, invecchierai
ma sarai sempre presente;
tu non ti consumerai.
Con il corpo e con la mente
tu mi sorriderai.
Non finirà, non morirà;
quella ruga sul tuo viso
un po’ di più mi legherà.
Un amore non è ucciso,
un amore vivrà
(Enrico Ruggeri, “Non finirà”)
Invece, amico, amici, stavolta è finita.
di Stefano Falotico
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