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La maschera(ta) della Morte Rossa

Nei suoi occhi è Sibilla, vi è congenita la febbre del genio sfavillante.

Nei suoi occhi è Sibilla, vi è congenita la febbre del genio sfavillante. Prefazione: esegesi dell’Arte, esigenza! So che spesso, in Passato non poche volte accadde (quindi caddi…), fraintendeste il mio umorismo nero. Mi pare il caso, anzi il racconto che calza a “trucco”. Dietro un resoconto di vita, qualcuno deve fare i conti! Anche col proprio raccontarsela

 

 

Sin da infante, son sempre stato un grande ammiratore del supremo, imbattibile Edgar, vero genio d’acutezza mentale forse scaturita dalla sua vita tribolata.
Per esperienze personali, posso infatti attestare e comprovar alla mano che non v’è Arte senza sofferenze interiori.
Innanzitutto, definiamo “Arte”, concetto assai suscettibile di molteplici significa(n)ti ma, proprio in tali variazioni di metrica e giudizio, dal de gustibus discutibile, nasce il primo inghippo.

C’è chi considera “Arte” qualsiasi forma espressiva della personalità (non) mostrata. E quindi inglobano in tale “ginepraio” (sì, lo è ché il concetto tanto amplificato… si morde la coda da solo d’orticaria…) oramai tutto.
E, generalizzando, accorpando anche le più furbe, ricattatorie e a prima vista avvenenti “carezzine” al piacere, spesso omologato, s’include (dunque s’espande a iosa e “rose di spine” ritorsive) anche il brutto.
E il brutto, sempre secondo il discutandum est, a taluni appar(v)e-irà bellissimo. Addirittura, dinanzi a quattro schizzi di “sperma” su una tela, eiaculati per escogitar lo stratagemma “ludico” del far soldi, leggasi volgarmente e, per pari “teorema” (in)direttamente proporzionale, gettar fumo (piccante) agli occhi, spennando le coscienze di quattro creduloni pronti, dirimpetto a questi “stopposi petti pornografici” così “pendenti” dalle loro labbra, a farsi (in)coscientemente spellare semmai da chi li ha persuasi che arte sia, “ivi” spacc(i)ata a lettere cubitali in prima pagina del pennivendolo, a sua volta finto e suggestionante, dall’“alto” molto labile dell’esser già stato reputato “grande” e “credibile”… (eh sì, ha quattro lauree… se n’intenderà, se lo dice lui, bisogna credergli, può “certificarlo” appunto di “consolidata”, solidissima… reputazione eh, non si sputtanerebbe nel celebrar puttanate).
Finiamo, travolti dalla miriade d’informazioni (multi)mediatiche del bombardamento appiattente degli spiriti critici, con l’annebbiarci.
Prima, venivamo accecati da Michelangelo e la Letteratura di Dostoevskij c’ipnotizzava col suo carico, anche giustamente doloroso, d’addiction e tormenti, noi stessi ai limiti del misticismo e del rapimento estasiato.

Oggi, in questo Mondo alla cianfrusaglia, imbevuto di troppe “latrine”, anche il piscio a mo’ di graffito non è urina ma “adorabile”. Un Mondo appisolato di pis(ch)elli.
Insomma, non allunghiamo il brodo, la brodaglia puzza, non ho “quella” sotto il naso, ma vorrei annusare una bellissima Donna, senza che se la tiri da diva di Hollywood… oltre a nessun film in curriculum, ha solo un grande culo.
(S)oggettivamente è figa(ta). Per il resto, fa cagare.

Identico discorso “allusivo”, possiamo spostarlo in un versante più “elevato”. Le virgolette, che uso spesso, son qui ancor più necessarie per accentuar il sen(s)o d’ambiguità in cui raccapezzarsi è oramai impresa impossibile. Fra tale valle di capricci, arricciatevi e le acconciature eleganti vi sembreran sconce. Ah, scontato. Questo è già visto. Ma cosa è visto se reinventato?

Se vai al cinema e stronchi il film che va per la maggiore (semmai sei “obiettivo), ti dan del cretino perché oggi “spinge” il “cinema” con la maggiorata, a prescindere che compaia “allodola” solo nel trailer già “da lodare e Dio ti benedica…, oh, si chiamerà Benedetta, quindi ben detto” idolatrante giacché, per “vederla” priva di “giacchetta”, sudi freddo ma poi resti di ghiaccio quando “scopri” che all’oca han tagliato la parte “migliore”. Non è l’occhio, ma dove vorresti “pararli”. La “ravvedrai” completamente lussuriosa solo negli extra del Dvd deluxe formato “Max”, un po’ calendario e un po’ Patrizia D’Addario. Sì, dai al pubblico il “pube”, e crescerà “al cubo”- molto cubista da dadaismo…

Insomma, se hai talento, impegnati tanto lei la dà e di soldi pretende pure l’aborto dopo che il produttore corrotto l’ha “impregnata”, censurando la recitazione “orale” di “Sono cazzi suoi”. Sempre impegnato, non disturbatelo!

Ah sì, ironizziamo. Ché mi trovo in libreria davanti a una pila-“davanzale” di “bestseller” con in copertina peli pubici “pudicissimi”, “inneggianti” all’“altezza” scatologica delle più luride schifezze smerciate come “purissima” lindezza. Indecentemente, invece, la libreria più “fornita” di Bologna non ha più copie dei racconti… di Poe. Vado dal commesso e gli chiedo, anzi esigo, di parlare col direttore, al fine di poter esporgli uno scandalo “annunciato”.

Vendono solo i corpi “spogli”, nudi alla “Helmut Newton”… uguali, tendenti alla fotocopia delle cosiddette bellezze. Al bagno o ai bagnini?

Che cos’è quest’inversione balorda delle e(ste)tiche? E delle na(u)tiche?
Si rema a rotta contraria, nessuno vuol contrastare il prossimo. E si dichiarano però democratici con vezzi artistoidi da spacciatori.

Il commesso dichiara, a viva voce-urlatore, che va così e così bisogna (s)vendere. Minaccia di chiamare le forze dell’ordine e blocca anche la mia “ordinazione” del Poe.

Dopo tre secondi netti, entrano in libreria dei fascisti teppisti fasciati di “nervi”. Insomma, dei nerboruti manigoldi col manganello senza distintivo qualificante ma “quantitativo” per l’istinto lor brado del da pollo marchiarmi in quanto voglio ancora comprare Poe nel 2013, dunque sono solo che un puerile e non posso perfino spillar di tasca mia.
Però, mi riempiono le palle di “palate”. Eh già, ne fan a “patate”, a polpette sul chi crede all’Arte fra questa “sensibile” contemporaneità!

Mah.

Di mio, nonostante vari lividi all’attivo, visibili e non “passibili di denuncia”, poiché acquirente sorpassato, non voglio acclararmi nei cori ma insisto, “masochista”, a raschiarmi di vera Arte depurativa come il Vim Clorex.

Ho recitato “La mascherata della Morte Rossa”, alcuni testi poco puristi riportano solo “Maschera”, ma qual è davvero il titolo originale? Quello “valido?”


Altri “vetusti”, “vegliardamente” han adattato ne “La pantomima della Morte Rossa”. Insomma, è tutta una “festa”.
Ma c’è da perder la testa fra queste maschere carnevalesche, fra i mascara delle donne fra maschi animaleschi, fratricidi, omicidi e appunto il porno attore che fa… “artista” ma a me sembra solo “apri-aragoste” di “carisma” spermicida. Ad Agosto, tutti al mare, ma ti girano per gli altri mesi lavorativi, un girarrosto di girasole. Sì, appassiti autunnalmente e dipendenti per il festivo, concesso loro dal padrone coi festini eterni.
Alcuni si rivolgono al Padreterno. Altri alle tenerezze, altri alla monnezza.

Insomma, ecco il testo integrale, da leggere e imparare a memoria.

Dopo di che, recitatelo con la mia voce, e capirete che sono Arte col suo perché:

La mascherata della Morte Rossa

Da lungo tempo la Morte Rossa devastava il paese. Nessuna pestilenza era mai stata così fatale, così spaventosa. Il sangue era la sua manifestazione e il suo sigillo: il rosso e l’orrore del sangue. Provocava dolori acuti, improvvise vertigini, poi un abbondante sanguinare dai pori, e infine la dissoluzione. Le macchie scarlatte sul corpo e soprattutto sul volto delle vittime erano il marchio della pestilenza che le escludeva da ogni aiuto e simpatia dei loro simili. L’intero processo della malattia: l’attacco, l’avanzamento e la conclusione duravano non più di mezz’ora.
Ma il principe Prospero era felice, coraggioso e sagace. E, quando le sue terre furono per metà spopolate, egli convocò un migliaio di amici sani e spensierati, scelti fra i cavalieri e le dame della sua corte, e si ritirò con loro in totale isolamento in una delle sue roccaforti. Era una costruzione immensa, magnifica, una creazione che corrispondeva al gusto eccentrico e alla grandiosità del principe. Un muro forte ed altissimo la circondava. Nel muro le porte erano di ferro. Una volta entrati, i cortigiani presero incudini e martelli massicci e saldarono le serrature. Impedivano così ogni possibilità di entrata ? di uscita, per improvvisi impulsi di disperazione ? di frenesia, che potevano nascere, in chi era dentro le mura. La fortezza era ampiamente fornita di viveri. Con tutte queste precauzioni i cortigiani potevano permettersi di sfidare il contagio. Il mondo esterno provvedesse a se stesso. Era tutto sommato follia addolorarsi o pensarci troppo su. Il principe aveva pensato a tutti i divertimenti possibili. C’erano buffoni, improvvisatori, c’erano ballerini, musicanti, c’era la Bellezza e c’era il vino. Tutto chiuso là dentro. Fuori c’era la Morte Rossa.
Fu verso la fine del quinto o sesto mese di questo isolamento, mentre la pestilenza tutt’intorno infuriava al massimo, che il principe Prospero pensò di divertire i suoi mille amici con un ballo mascherato di un insolito splendore.
Fu una messa in scena voluttuosa, questa mascherata. Innanzitutto però, vorrei descrivere le stanze in cui si svolse. Sette stanze formavano un unico maestoso appartamento. In molti palazzi, simili fughe di stanze aprono a una veduta lunga e diritta; con le porte a due battenti che si aprono verso le pareti permettendo di vedere tutto in un solo colpo d’occhio. In questo caso invece la situazione era differente, come d’altronde ci si poteva aspettare dall’amore del principe per il bizzarro. Le camere erano disposte così irregolarmente da poter essere viste soltanto una alla volta. C’era, ogni venti ? trenta metri, un’improvvisa svolta che apriva di conseguenza prospettive sempre diverse. A destra e a sinistra, nel mezzo delle pareti, un’alta e strettissima finestra gotica dava su un corridoio chiuso, che seguiva le tortuosità dell’appartamento. Queste finestre, di vetro lavorato, variavano di colore secondo la tinta dominante delle decorazioni di ogni singola stanza. Quella situata all’estremità orientale aveva nella decorazione una forte dominante blu, e blu erano le finestre. Negli ornamenti e nelle tappezzerie della seconda stanza predominava il purpureo e purpuree erano le vetrate. Tutta verde la terza, altrettanto le finestre. La quarta era arredata in arancione e così anche illuminata dello stesso colore, la quinta di bianco e la sesta di violetto. La settima stanza invece era tutta avvolta in arazzi di velluto nero, che pendevano dal soffitto e dalle pareti, ricadendo su tappeti della stessa stoffa e colore. Era soltanto in questa stanza che il colore delle finestre non corrispondeva a quello delle decorazioni. Le vetrate erano di un colore scarlatto, di un cupo color sangue. Ebbene, nessuna delle sette stanze con le loro decorazioni, pur ricca di ornamenti d’oro, era illuminata da lampade o da candelabri. Non v’era luce di alcun genere proveniente da candele ? lampadari in questo succedersi di sale. Ma nei corridoi che accompagnavano le stanze erano appoggiati pesanti tripodi che sostenevano bracieri accesi, che, proiettando la loro luce raggiante attraverso il vetro colorato, illuminavano così in modo abbagliante le sale. Questo produceva un’infinità di immagini fantastiche. Ma nella stanza nera, quella a occidente, l’effetto della luce e del fuoco che si diffondeva sui drappi neri attraverso le rosse vetrate era talmente spettrale e produceva un tale effetto irreale sulle fisionomie di chi entrava, che nessuno aveva il coraggio di mettervi piede.
In questa sala si trovava pure, appoggiato contro la parete, un gigantesco orologio d’ebano. Il suo pendolo emetteva un suono cupo e monotono e quando la lancetta dei minuti compiva il giro del quadrante e batteva l’ora, veniva fuori dai suoi polmoni di bronzo un suono chiaro, forte e profondo, straordinariamente musicale ma di una tale forza, che a ogni ora i musicisti dell’orchestra erano costretti a fermare l’esecuzione dei loro pezzi, per ascoltare quel suono; e così anche le coppie interrompevano le danze e su tutta l’allegra compagnia cadeva un velo di tristezza; e mentre l’orologio scandiva ancora i suoi rintocchi si notava che i più spensierati impallidivano e i più vecchi e sereni si passavano una mano sulla fronte in un gesto di confusa visione o di meditazione. Ma non appena questi rintocchi tacevano, tutti erano subito presi da un sottile riso; i musicanti si guardavano fra di loro e sorridevano quasi imbarazzati del proprio nervosismo, e si promettevano che il prossimo scoccare della pendola non li avrebbe più messi tanto a disagio; ma poi, dopo sessanta minuti (che sono esattamente tremilaseicento secondi del Tempo che fugge), quando tornavano a risuonare i rintocchi dell’orologio, cresceva in loro lo stesso stato di smarrimento, di tremore e meditazione.
Nonostante tutto questo, la festa era allegra e incantevole. I gusti del principe erano davvero squisiti. Aveva, in particolare, occhio per i colori e per gli effetti. Disprezzava le facili decorazioni in voga. I suoi progetti erano avventurosi e bizzarri, e la loro ideazione era illuminata da incandescenze quasi barbare. Qualcuno avrebbe potuto giudicarlo pazzo. I suoi seguaci però intuivano che non lo era affatto. Bastava stargli vicino e ascoltarlo per assicurarsi del contrario.
Era stato in gran parte lui stesso a sovrintendere alle decorazioni delle sette stanze, in occasione di questa grande festa; ed era stato senz’altro il suo gusto personale a caratterizzare le maschere dell’intera compagnia. Credete, erano davvero grottesche! Di splendore e lucentezza, di intensità e fantasticheria, ce ne era tanto quanto poi se ne sarebbe visto nell’Ernani. Vi erano maschere arabesche, maschere totalmente in contrasto con i corpi che le portavano, fantasie assurde che soltanto un pazzo poteva aver inventato. Vi si trovavano in gran copia bellezza, lascivia e bizzarria, e insieme terrore, e nulla che potesse suscitare disgusto. E difatti, nelle sette stanze si muoveva una moltitudine di sogni. E questi sogni si intrecciavano, assumendo colore dalle stanze e dando la sensazione che la musica ossessionante dell’orchestra fosse soltanto l’eco dei loro passi. E poi, ancora l’orologio d’ebano, nella sala di velluto, che batte tutte le ore pietrificando per un attimo, i sogni. E cade il silenzio e l’immobilità e si sente soltanto l’orologio. Ma l’eco dei rintocchi si estingue lentamente: ancora una volta non sono durati che un istante, e un riso represso fluttua e l’insegue, mentre svaniscono. Torna la musica e i sogni riprendono vita; si incrociano e si uniscono ancora più ardentemente, illuminati dai raggi del fuoco dei tripodi, attraverso il vetro colorato. Ma verso la camera più occidentale nessuna maschera osa avventurarsi, ora che la notte avanza e dalle vetrate sanguigne viene una luce più rossiccia, e la cupezza dei drappeggi scuri spaventa più che mai. Chi posasse il piede sul tappeto nero sentirebbe il rintocco ovattato dell’orologio vicino ancora più solenne e, nello stesso tempo più vigoroso, di quanto possano sentirlo le orecchie di coloro che indugiano nei più remoti divertimenti delle altre sale.
Ma queste sale erano densamente affollate; in esse pulsava febbrile il cuore della vita. La baldoria andò avanti ancora più frenetica, finché risuonarono i primi rintocchi della mezzanotte. La musica cessò, come ho detto, i ballerini si interruppero e vi fu, come prima, una pausa generale, inquieta. Questa volta però i rintocchi erano dodici e accadde che il tempo a disposizione per lasciarsi andare a contemplazioni e pensieri fosse più lungo; e per questo forse, prima che l’ultima eco si dileguasse, più di uno della compagnia ebbe occasione di notare una figura mascherata che fino ad allora era sfuggita all’attenzione. E, quando la notizia della presenza di questo personaggio si diffuse fra i presenti, si levò un bisbiglio, un mormorio dapprima di disapprovazione e di sorpresa e alla fine di spavento, orrore e disgusto.
In una mascherata come quella appena descritta si può immaginare che non poteva essere un’apparizione normale a suscitare tutto questo trambusto. Alla fantasia e al capriccio delle maschere erano state fatte illimitate concessioni, ma la persona in questione aveva superato Erode e oltrepassato anche i limiti della stravaganza del principe. Anche nei cuori dei più sfrenati ci sono corde che non possono essere toccate senza dare forti emozioni. Persino per i più cinici, per i quali la vita e la morte sono oggetto di beffa, esistono cose su cui non si può scherzare. Era ovvio ormai che tutta la compagnia sentiva profondamente che nel costume e nel comportamento dell’individuo non vi erano né umorismo né dignità. La figura era alta e ossuta, ed era coperta dalla testa ai piedi dei vestimenti per i defunti. La maschera che portava sul viso era talmente simile all’aspetto di un cadavere irrigidito che anche l’occhio più accorto avrebbe avuto difficoltà a scoprire l’inganno. Eppure tutto questo avrebbe potuto essere sopportato, se non approvato, dai pazzi festaioli tutt’intorno. Ma l’individuo aveva avuto il coraggio di mascherarsi a guisa di Morte Rossa. Le sue vesti erano fradicie di sangue e anche la sua faccia dall’ampia fronte era cosparsa dell’orrore scarlatto.
Quando gli occhi del principe Prospero caddero per la prima volta su questa immagine lugubre (che solennemente, quasi a simulare il ruolo scelto, camminava maestosamente fra gli ospiti) sul suo viso sconvolto si disegnarono terrore e disgusto; subito dopo avvampò di rabbia.
 «Chi osa?», domandò con voce rauca ai cortigiani più vicini, «chi osa insultarci con questa bestemmia? Prendetelo e smascheratelo, e che si sappia chi impiccheremo all’alba sui bastioni del nostro castello.»
Mentre pronunciava queste parole, il principe Prospero si trovava nella sala orientale, cioè nella sala blu e la sua voce risuonò alta e chiara per le sette sale, poiché il principe era fiero ed energico, e a un cenno della sua mano l’orchestra s’era taciuta.
Era nella stanza blu, che si trovava il principe, circondato da un gruppo di cortigiani impalliditi. Al suo parlare dapprima i cortigiani fecero l’atto di scagliarsi contro l’intruso, che in quel momento si trovava nei pressi e che ora si stava avvicinando maestosamente al principe, con passo lento e deciso. Ma per l’indicibile terrore che la folle messa in scena della maschera aveva suscitato nell’intera compagnia, nessuno osò afferrarlo, e così passò indisturbato vicino al principe. E mentre la folla si allontanava di scatto, come colta da un comune impulso, dal centro delle stanze e si appiattiva alle pareti, presa da una paura incontrollabile, costui continuò ad avanzare con quel suo passo solenne e misurato che lo aveva distinto fin dall’inizio, senza incontrare ostacoli da una sala all’altra. Attraversò la sala blu, la sala purpurea e da quella passò alla sala verde, dalla sala verde a quella arancione, e poi alla bianca, e da questa si spinse anche nella sala violetta, prima che fosse fatto un solo tentativo di arrestarlo. Fu in quel momento però, che il principe Prospero, furioso anche della propria momentanea vigliaccheria, si precipitò attraverso le sei stanze, senza che nessuno dei suoi lo seguisse, per il folle terrore che li paralizzava. Impugnava una daga e d’impeto si era avvicinato alla figura che si ritirava, ed era già a pochi passi quando questa, giunta all’estremità della stanza di velluto, si girò di scatto verso il suo inseguitore. Si sentì un grido straziante. La spada cadde scintillando sul tappeto nero, sul quale subito dopo si accasciò morto il principe Prospero. Con il coraggio della disperazione un gruppo di gaudenti si precipitò nella sala e afferrò il mascherato, la cui alta figura stava maestosamente immobile nell’ombra della pendola d’ebano; e fu allora che con un gemito d’orrore si accorsero che le vesti funerarie e la maschera di cadavere che avevano afferrato con tanta violenza, non contenevano alcuna forma tangibile.
E allora si seppe che la Morte Rossa era là, e tutti la riconobbero. Era arrivata come un ladro nella notte. Uno dopo l’altro caddero i festanti nelle sale ormai invase di sangue; morivano così, nella disperazione. E quando l’ultimo morì, anche l’orologio d’ebano tacque, e le fiamme dei tripodi si spensero. E il Buio, il Disfacimento e la Morte Rossa dominarono indisturbati su tutto.
Voi cosa avete capito da quest’emblematico racconto? Che siamo pirandelliani, ognuno dietro una maschera per l’opportunismo di circostanza?
Carlo d’Inghilterra è il Principe che “prosperò” traditore di Lady Diana per “fotterla” nel “tunnel” della buzzicona? Potrebbe essere un’interpretazione molto sui generis, una vaccata meglio della vaccona di Kate Middleton.
Sì, secondo me le principesse, anche se magre e slanciate, han un che di lardoso. E vanno (s)munte.

Ora, alza la mano uno studente senza denti:

- Professore, ce lo spieghi Lei?

- Ma io non ce l’ho piegato! Non devo spiegare proprio un cazzo. Devi impararla/a da solo. Ricorda: non troppo analizzare, se no diventi un analista da penali, e ti faccio l’anale.

- Come, prego?

- Niente, era una cazzata. Vuoi la spiegazione del racconto?

- Certo.

Il Principe Prospero pensa di poter pappare tutte le prosperose e invece niente cena della sua maschera di cera da morto.
I panegirici servono al panettiere per le “rosette”. La verità va dritta e abbrustolita. Come lo “sfilatino” rizzo, non arrotolato… in inutili (rag)giri(ni). Deve essere caldo e basta. Farina del suo sacco, senza scopiazzature e altri “cazzi” che tengano, leggi Viagra e Bignami.
Da me, il professore, otterrai solo il tuo gnomo se oserai “magnarmi” da falsità professorali. Non sono magnanimo, sono quel che sono. A volte non ci sei, perché dormi. I sonniferi rilassano, per un po’ non ci sarai, poi canterai con Claudio Baglioni la tarantella assieme a Vasco Rossi, al ritmo di sono vivo, sono qui, sono ancora qui, eh già. Secondo me, è già finita. Ti ve(n)do in zona Verdone quando canta la canzone “Binario”…

Rammenta, demente. Nella vita, non esistono equazioni binarie e spiegazioni logiche. Devi calcolare anche il digitale dopo l’analogico. Infatti, adesso dove li butterò i vecchi VHS che non “entrano” nel “lettore?”.
Io leggo ma gli altri no. Sembrano delle stampanti. Parlan per frasi fatte. Io non mi faccio, gli altri strafatti ti dicono di farti gli affari tuoi. Il loro affare però è ammosciato. Troppa droga e i ventenni han già le rughe. Se a quaranta diverran a novanta, a ottanta rinsaviranno o salirà ancora? Chissà. Lasciano il Tempo che trovano. Ma lo troveranno in mezzo alle troie. Il mestiere più antico. Sì.
Un Tempo, guidavano le Vespette. Amavan la donzelletta che “vien” dalla campagna, adesso mirano a carriere “facili” eppur “arrivate” in cima al “monte”.
C’è Monti, Vespa Bruno, Brunetta va con le brunette, la verruca di De Niro è sempre più vecchia.

Insomma: “La maschera della Morte Rossa” è la metafora della condizione (dis)umana, che tocca anche ai “potenti”. Si credon “untouchable”, ribaltando le regole da Al Capone, ma se li tocchi… nell’intimo… (vedi Berlusconi con le mignotte), s’incazzano e rigiran di porcate. Tutto un Travaglio, da che posizione la guardi, sei ingravidato da quando sei uscito uterino, forse anche Martin Lutero era invero papale. Sì, Martin non ha mai pappato, sol di sapone bolle.

Gli uomini coi soldi, prima o poi, si rivelan stronzi. Le stronzette, da me solo che cazzotti. Comunque, ce n’erano molte nell’orgia di Eyes Wide Shut.

Tom Cruise scelse la fulva in modo poco furbo, di lievito “infornante” sull’inculata che levita.

Si toglie la mask, diventa Jim Carrey di Bugiardo Bugiardo e tanto va il porco al largo che fa la fine del Prospero.

Una fine da vero dottore del Principato… di Monaco?

No, di me che glielo monco.

La Morte Rossa sono io.

Così scrisse, così è.

Amen, salutami la bionda morta dell’obitorio.

Anzi no, aspetta. Ma la bionda era la stessa della festa? E chi l’ha resa rossa? Come? Era sempre bionda? Son io che confondo?
Siamo in un doppio sogno?

Mah, secondo me l’ha ammazzata il parrucchiere.

E Nicole Kidman rimase una cagna anche con Kubrick. Il resto è una “montatura”. Rimarrà negli an(n)ali.

Fidati. La vita è Arte per Natura, il bisogno dell’artista è consolarla.

Certo, se non hai i soldi per neanche un piatto d’insalata e la testa di Stanley Kubrick, poi ci scappa la frittata.

E nessuna scopata. Ci sarà qualche scappatoia? Voglio solo la scappatoia. Al massimo, posso pretendere una scaloppina. Non voglio galoppare di fritte patatine.

Oh, non friggerti. Pensa al tuo uovo, mi sa che l’Uomo non sei tu. Mi sembri uno da Vov. Dammi retta, quale genio della lampada.
Non sei nessuno, io sono qualunque. Il problema non mi passa. Svolto mentre ti aspetta la sedia elettrica da Alessandro Volta(ggio).

Insomma, mi tengo Poe-ta, anche squattrinato, tu tieniti le tette guadagnate di molta marchetta.

Ciao, ci rivediamo, eh?!

Non è una spiegazione? Invece, lo è. E se non t’ho convinto, se vuoi avvincermi al tuo vanto, da me lo riceverai poco davanti.

In realtà, l’esegesi di questo grande racconto è questa, sintetizziamola però per questioni logi(sti)che: il “Principe” Prospero pensa di scacciare via i suoi demoni interiori e crede di trovar conforto in una “fortezza”, attorniato solo da persone che può “soggiogare”.
Ma la coscienza silenziosa serpeggia, striscia, entra senza che nessuno possa vederla, il Principe l’ha sempre saputo/a. Sperava che si fossero per sempre calmate le acque, ma le acque delle anime “rinnegate”, soprattutto la propria, tornano prima o poi a galla.
Tormentano di pari persecuzione. Per se stessi nello specchio delle bugie. Di tutti, purtroppo.

M(or)ale: se fai il gallo, anche i ricchi piangono.

Non fa rima. Non segue un filo logico?

Sì, ho sempre preferito gli incubi di Lynch a Shining.

Possiamo dirci la bestemmia? Va detta. E ci sta pure il Dio dopo il?

Il pranzo di Prospero. Perché non puoi (pro)sperare a lungo.

Applauso!

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Apocalypse Now (1979)
  2. La maschera della morte rossa (1964)
    A scanso di equivoci!
  3. All’inseguimento della pietra verde (1984)

 

Decadentista, arrugginito, si sfama eternamente di nostre anime, le dissangua e vivrà prosperamente di aldilà immenso.

Decadentista, arrugginito, si sfama eternamente di nostre anime, le dissangua e vivrà prosperamente di aldilà immenso.

Stesse iridi impenetrabili, arcano Cavaliere delle notti. Brandisco e forgio il Cuore a titan(i)o.

Stesse iridi impenetrabili, arcano Cavaliere delle notti. Brandisco e forgio il Cuore a titan(i)o.

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