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Macellaio, scorgi ora il fantasma fra i tuoi occhi

Rosso sangue.

Rosso sangue.

 

di Stefano Falotico

 

Vengeance, colore nitido d’un ectoplasmatico profumo

Lugubre fantasma a raschio di gola inferta, sprigionante ansimo catartico, leggiadro punitore delle sconcezze al pudore, passeggiò a monito esuberante di sé a scannarli in poi sparir languido…

Uno dopo l’altro, abbarbicati a vetuste certezze, cagionatrici di panze orripilanti, festaiole in gran chiasso di carcasse già morte, asfittiche nel lor brindarsi allegre e paciose d’invero razzismo guerrafondaio se minate nel dubbio della pasciuta carnalità d’animali mai domi, creperanno! Che, con irriverenti risate, grufolando in gozzoviglie prone ai ludici, esornativi e abbellenti piaceri, tronfi della propria ghiotta cupidigia porca, versarono del malignissimo veleno ad anima di me ché espellessi la mia alterità innata. Al fine che, assottigliato nel respiro, morso nei suoi istintivi vagiti, mi prostrassi alle orche delizie di tal loro spinoso conficcarsi in grazia d’un Dio rinnegato, laido e putrefatto in balli orgiastici di gioia invero artefatta e già sfattissima.

Con qual prosopopea, il folle ebbe la vigliacca idea di sporcarmi e infliggere il suo pazzo plebiscito, ché mi chinassi a suoi voleri e alla libertà del preservarlo sciolto nelle sue troie a riverirlo con “boccali” dello spurgargli la maschera, che fuori indossa, a suoi (di)letti ligi al mercimonio brado della sua carne golosa, lui, ardimentoso di cotanta boria e sempre ad anelar le arsioni delle sue fiamme screanzate nel godersi felice e spaparanzarsi in trionfi goliardici del sé edonista e crasso di (pres)unzione nella cena più schifosa.

A sua remissione dei peccati, non mi placo e, non pacato, lo devasterò affinché possa inalare tutto l’asma della sua acredine, che porse di tanta luridezza ché mi piegassi al monopolio del suo sconcio rider sporco.

Volle macchiarmi e attentò tanto ché io m’adombrassi e, incupito nell’animo, perdessi anche l’energia di scaldarmi e far nascere in me la ribellione forte di chi mai, dinanzi a tal merdoso “vittorioso” di sue moine e frivolo bruciar di gole, gridacchiante sol la sua bisunta felicità così ferinamente agognata, afferrata così come acciuffante anime altrui per castigarle, se non remissive a suo (de)coro, da lui in barbarico concepirle, nel poi affliggerci, sì, noi tutti, in gogne sudanti la sua meschinità, potesse rinascere!

Irriguardoso di chiunque, passeggia a (scorri)banda di chi gli regge il “giogo” e persevera, crede lui con inappuntabile, spassosa, “divertente” felicità, per crocifiggere chi, non a lui sventolante bandiera bianca, fissa sorridente e “indisturbato” dello affigger nella macelleria dei suoi lordi giochi. N’estrarrà il sangue dell’averlo appeso al chiodo, ancor guaendo maialesco in issante sua superbia “intoccabile”.

Ma uno non riuscì ad abbattere, fuori dalla sua porta aspetta adesso “esso” la cena.

Ossa, ossa, ossa!

Perché sa che, non solo il fantasma lo divorerà, ma come una bestia, lui, che per così tanto ordì un imperdonabile crimine, patirà l’eguale dente per dente. Sin a strappo non più rimarginabile delle sue budella e vedersi urlare in pianto interminabile così “delicato”.

 

Amen.

 

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