di Stefano Falotico
La più grande favola “nera” di Natale mai raccontata, secondo la versione ancestrale di Batman il balestriere delle emozioni risorte in grembo dalle sepolte sue macerie, qui scagliate a freccia veloce
Scevro da mielose smancerie e sconcezze varie di tal perduta società allo sba(ra)glio perpetuo, immolo il mio corpo in “immonda” santità divina. E, in questo salmo mio scalmanato, scotennerò il Cuore amatissimo dinanzi alla lussuria vostra sempre più ad affannarsi per altro infranger le tempie del Tempo che, sol di rammaricarvi privi oramai d’amore, creperete assonnati di “tanta” oscurità e già vecchio, opaco lindore che mai fu, dunque non foste, neppure quando io nacqui oltre.
Giungo nei pressi di un’abitazione tinta di “fresco”, “rinomata” di tutto punto nel bel mezzo d’una radura nebbiosa, avvolta da frasche appassite che si spezzan di fronte a mia lucida rifrangenza vellutata. Quasi una villa come se ne vedono nelle cartoline delle periferie di Londra. Ove l’aplomb dei londinesi s’appaia in tragicomicità da tè “bollente” a una contemplazione da me adesso ripudiata per sempre sfuggire alle balorde e ottuse ostinazioni dei vostri amarognoli e dolciastri caffè. Perché, nelle mie viscere, è riscoccata la fiamma spellante del ribelle bello e tal mio baldo ardere… ardirà a giammai più adombrarmi tra i forestali alberi. Se i lupi ululano, tu sei urna come i corvi che gracchiano, orinandoti. In tal “loculo”, stagnato nel groviglio di “salivare” piante rampicanti, salgo la scalinata, dopo averne divelto il portone nello scasso ingegnoso su ac(u)me della mia “truffaldina” ma sana mente da unico umano, non menomato, aggrappato ancor alle voci dell’anima in voi già smarrita. Oh, digradaste in valli di lacrime “rabbonite” da una “dolcezza” bugiarda che affila la ruffiana maschera sociale al (de)turp(ar)e, quindi arrotiti siete arrosto di carnaio in vetusti ingranaggi già arrugginiti e non raggianti delle vostre vene avvizzite. Così come il vino invecchia di miglioria in ornato aroma gustoso, io evolvo di stagione in stagione succosa, succhiando le fragoline di bosco tra i vostri loschi affari da teschi. Care esche, io pesco le albicocche e suggo la matura pesca col “duro”. E qui, in quest’autunnale mio vagare vicino a voi gli scheletri, “incornicerò” l’affamato “famoso” a sfamarmene sin al midollo spinale. Ché, con protervia arrogante e ignobile sdegno, mi giudicò a priori prima che (ri)nascessi. Volendomi perfino ficcar in naftalina a ripetuto bloccarmi. Dopo aver (m)assaggiato, di gustativo sorseggiare ogni zampillo frizzante d’effervescenza mia “solitaria” d’una fontana qua adiacente, sgorgherò fulmineo in tal suo nascondiglio. Ottenebrerò il suo credersi arrivato in cima al comando del vigliacco “comandante” che è. Ché, poi, di chissà quale vertice è ambizioso il nostro “ammiraglio?”. Ohibò! Borbotta alla porta, mi riceve, ceniamo e non s’ode per ora nessun trambusto anche se, silenziosamente, riceverà sode botte poco “digerenti”. Glielo rassoderò. Che sederino…
Pare che mi stesse aspettando e ciò mi sorprende, mi piglia alla sprovvista e attenta alle mie (s)palle. Dal di fuori, son entrato con passo felin e felpatissimo, come un pagliaccio gelante di fantoccio a neve appallottolata ma a lui non sarò glassa bianca e neppure galante in quanto menestrello “folle” dalle risate beffarde e in tutti i suoi buchi (s)cavalcanti. Egli apre l’uscio con l’intenzione presto di pisciarmi nel cervello. Vorrebbe ingarbugliarmi nelle sue “dotte” teorie del Mondo, al fine affilante d’infilzar il mio Cuore d’inconcepibili, da bile e fegato marcito, assurde quanto grottesche visioni dell’esistenza più lardosa e laida. Da maiale subito di quanto pen(s)i scannato. Vorrebbe uccidermi con sottigliezza “posata”, scarnire proprio me, che sempre credetti all’arbitrio libero quanto sospiro illeso da libellula danzante e alle farfalle “aperto”, affinché il Mondo sia felice di mille concezioni dentro un arcobaleno intrecciato alle detonazioni intonanti i colori delle soffuse tonalità roventi fra il rosso bruciante del fiero copulare e il fornicante, lavico indaco fulgido in nostre scremature virenti e profonde, non sciovinisticamente infornanti e lontane anni Luce, oh Dio la Luce, per nulla di forbici come il nostro che ama deformare al for(n)o “caldo”. Io che rappresento il lindo non inaridito e l’anima non glaciale da chi ha resistito a duri temporali dalle piogge malinconiche e sferranti colpi per vincermi nell’ingloriosa essiccazione che i cinici desiderarono s’accalcasse, come calcare, a mio sporcarmi in acrilico sbiadire per “voluttà” rivoltante del loro c(l)oro disumano e “unanime” d’aberrazioni infierire in ferite a traumatizzar di più le mie rimarginate cicatrici e a lederle indelebilmente col dolore amaro vicino alle acrimonie odiose dai contorni poco briosi ma da brividi, gli sarò (in)grato. Grattando a raschiar tal asino che subito può scongiurare quel che accadrà ma, già (de)caduto in mia trappola del congelarglielo, è topo nell’avvertire il formicolio d’un tremante in subito “scioglierlo” fra le mutande. Cagarella sciolta e di mia briglia nel sacro abba(gl)iante.
Mi presto al suo “gioco” ed egli incalza, sempre più incazzato, di avvilenti domande.
Mi chiede, di tutti personali con “Grazie” ma non suo ringraziamento eppur “grazioso” di falsità “nuda” in mio occhio indagatore, d’associare tre parole alla parola “Amore”.
Mi dà in mano un foglio, “scarto” la stilografica dai pantaloni e scrivo di getto “simpatico” un inchiostro mio “nero” da finto anatroccolo come Calimero.
Dal calamaio, colan vergate queste mie simbiosi con la Trinità, che io “allieto” di poesiole per abbellire la cartastraccia, cioè…:
amore degli stronzi a me non s’addice del neppur dir un solar dì da quattro soldi se di nettare sarai (s)fortuna a sua margherita triste e non da quadrifogli, amore è bacio di liquore se, della malelingua, nonostante il malincuore, lei non ti fotte di striscio, amore è una canzone di tal ritornello…
i fringuelli scesero a corte per “dorarla” nel permear quel che, imbucato, è sporco panno imburrato poi da lavare dal caramello anche se è un’educanda imbranata eppur che io “imbracai” in lago a barchetta o donnaccia da gastrica lavanda, e trotterellarono a frotte per punire la mignotta butterata e bruttarella.
Fine.
Il tizio urla tosto che mi spaccherà le ossa e il “mio” che sta mobilmente rigido e umorale in mezzo a lei e al tuo culo eppur nella bella donna dietro belante, e quindi non arretro di fronte spaziosa nei retri della mia non celata “bottega” di olio parsimonioso.
Non capisce un cazzo e chiama la polizia perché mi crede matto e pur “volgarmente” ozioso. Acidulo come l’uva passa nelle passerine su mio mai ingravidarle da passeggino ma solitario in quanto pascolo di olive ascolane in ani da passerone.
Passerà? Tu lo sai? Allora, il sale…
Al che, gli ricordo che sua moglie se la fa con un negro, e assomiglia al “cameo” di Martin Scorsese di Taxi Driver nel mio Bickle in fondo in fondo guardante da voyeur e ridente di beffarlo nel “porco” del mio parco rider sotto sotto.
Il tassametro va, il suo cazzo spara di grilletto (dis)armante.
Paga il pedaggio, vai a vivere sotto i ponti, adesso scendi.
In realtà questa non è una fav(ol)a ma un’inculata.
Se tal freddura non hai digerito, ci son le fave di Fuca.
E lascia la fica se ficcante le fui affondandolo.
E Batman?
Batman ordina di battere le mani. Il resto è un gioco. Il Joker è la carta rubamazzo.
Un po’ “schizza”, poi sta buono più del cattivo nel “doppio”.
Il Pinguino è anche un freezer.
Il resto si fotta.
Compresa tua madre da compresse.
Non pressasse, sono stanco del pressing. Io giocavo ala, tu sei pollo e il goal provoca un olè!
Evviva “colui” che nel cu(cu)lo “vola”.
Le (s)ole.
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