di Stefano Falotico
Come ti senti oggi? Stai meglio? No, di merda, quasi alla diarrea.
Non ho voglia di parlare. Sii tu logorroico, riempi le pause della mia (s)figa.
Ma l’ira diluisce, dipana un pensiero vagabondo che presto smalta la mia coscienza svanita, nitrendo io stesso svanisco se è vero che gli occhi racchiudono i dolori, le gioie e le frustrazioni di un anim(istic)o. Mistica rinomanza da primitivo coi graffi(ti) e specchi vanitosi d’una sempre ritrosia, svia, fagocita e soffre, sta male, malissimo, non s’attenuerà l’inquietudine di sentirsi fuori posto, fra ombre che scalfiscon un selciato a tuo rustico Cuore, antico come le pietre intagliate ove il lago dei sogni fu scremato da “lapidi” d’un bianco ucciderle. Candore avvizzito, stordisci le membra, sparisci e un’altra eclissi a te che ti pavoneggi solare ma invero sei triste, perso, come tutti o alla ricerca sempre d’una strada, d’un porto d’attracco che non pianga oppur si commuova, movimento d’impeti, di rabbie solitarie, di grandine che ferisce, cazzo… la vita si dilania a un gemito sofferto, sì, inutile resisterle, il resto è consolazione da poveri diavoli e un friggersi nella bugia che non sei purtroppo “normale”.
Questa è follia, sì, darsi del diverso per ottenebrare l’amore che scatta, scottan le cicatrici e non bolle neanche una patata bollente in pentola, ché tale esistenza anche repulsiva o pulsante prima o poi t’agguanta e ti c(u)oce la boccuccia. Dai, dai, guaisci, odia e fremi, guarniscilo, non guarisci neppure con una sega, sii oggi femmina e domani mezzo uomo, titano, gigant’appunto o nano, quel ch’importa è sempre un cazzo in culo. Capita a te domani, ieri lo estrassi dal tuo. A modo mio, un po’ dandolo e un po’ “ricevendone”, questa vita non è un eterno giovamento e i ricevimenti sono spesso funebri, perché vedo il mio volto cadaverico steso sull’altare e Cristo che sadicamente applaude.
Si chiama presa presto e senza prestiti salvifici in quel posto vicino al presbitero perfin dal prete, anche le suore presbiti non ne vogliono.
Mi diedi alla mutua, divenni muto e ora neanche le carezze della Caritas.
Allora elemosino.
Divento “donna” e bacio una mimosa, regalatami dal mio spettro, stronzo perché mi corteggiò e poi mi lasciò solo con un cane da mantenere, cioè me stesso. Nonostante il mangime scarseggi, vado a preparare il pranzo.
Sarò costretto a tagliarmi un’unghia e cucinar il mio “artiglio”, sperando lo digerisca. Buona cena.
Tanti saluti, ieri fui, dopo il pranzo (s)fumerò. Con tanto di “dolce”.
Insomma, sono uno come pochi. Non se ne fanno più uomini così. Mi sarei allietato solo del mio flauto.
E invece è stato un uccello cattivo a strapparmelo.
Comunque, passeggio e fischietto nelle aiuole. Si fottano!
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