di Stefano Falotico
Accigliato, ai bordi di queste case diroccate, “piovono” macerie sul selciato della mia anima. E, fra tante vite permeate di fresche lor libagioni mai stanche, “affilo” il naso nell’aspirazione nervosa che dia un tocco di prelibatezza a tal logorio mio che par di tutti i dì disamorato. Ancorato ad ancor sperare che domani i tramonti sian inebriati, meno spettrali, di tante rinate vite a me ad attraccar per non più nessuno attaccare.
Quella sicumera, quella forza d’urto che mi spingeva, oggi tutte le illusioni son deperite in vimini col disco della mia ernia. Ed ero, rotto dentro, spaccato in mille par(e)ti, cellula danzatrice d’una esistenza risorta di mellifluo credere che, evoluto, avrei spiccato il volo, invece giorno dopo giorno c(r)edo, non crepo ripiegato su me stesso, giammai sconfitto, eppur vivo, anche se a stento. Ho sete e labbra secche.
Estraggo dalla tasca una sigaretta. Fumare è resistere, il turbinio dei rompicapi dei viventi morti sta crepitando ad ossessionarmi a morte! E piango, lagrim’assorta in una radura di fresca mia rasatura in cristalli d’apoteosi al bello. Forse idiota, passeggiando ermetico. Fumando, dapprincipio, scovai la sorte d’un dado “cattivo”, la prima iniziazione alla fase adulta ove speranza non c’è più.
Buio, abbaiano, tormenti m’inguainano e tremo per non cadere. Un corpo vaga ma è il mio fantasma. Domani sarà come oggi. Ieri è già il futuro, altro fumo, un amore che va via e spara a me che già espiai, spio a un (t)ratto la vita, tratteggerò onestà morali da viaggiatori sinceri su un arrugginito trattore, fantasia di gomme asfaltate al solo e non sordo “odore” lontano dai rumori “accecanti” del pneumatico vostro odioso giorno. Fumo e, anch’io fottutamente adulto, cazzo… son fottuto.
Volgo gli occhi ove meno volgarità alla limpidità sia illuminata di lucernari “ripidi” e raschianti il freddo che tutt’ora, nel ventre anche celato, sento. Sibila lo scontento, non tormentarmi, nemico bastardo!
Fuori le ansie il vento scioglierà. Tuona!
E, nei soli di un Oriente calmo, remerò d’Atlantico in pace d’una traversata sul Pacifico, per scalar la Muraglia delle mie innate iridi a mandorla. Sapore io agro e dolce, sapete, leccami quel che cremoso ammicca e, uscendo, in vagina entra “accorto”. Lungo o breve il percorso è rosso…
Come la fiammella spenta e accesa, di colpo forte e folle, penetrando l’abbrustolirci e tu che scuo(t)i la vagina.
Che schifo.
Come il marcio delle sigarette.
Ma talvolta ci vuole.
Il resto è cen(er)e.
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