L’impietoso mio musical, rosseggiante nostalgia opaca d’una trascendenza mesmerica, lontana dallo stress e dalle coccole ruffiane perché sono interessato a riflettere sul senso esistenziale e non voglio darmi pena, dall’alt(r)o(ve), lo ammetto e sempre te lo metterò, d’una superbia mia congenita, genetica e “raggelante”, per le inutili lotte quotidiane, ove la preoccupazione maggiore è “emanciparsi” dalla patente di “falliti” e dunque, in questo coacervo e tal frenetico, tagliante caravanserraglio di raglianti pecore tutte prodighe, “poverine”, ad affaccendarsi per metri di s(ucc)esso d’agguantare costi quel che costi, anche a discapito del prossimo, spesso “decapitato”, e non solo in senso figurato di “taglio ai personali”, intesi però pure in quelli dei testicoli spappolati al “finissimo” di (cor)roderli nella corruzione danarosa, fallace e stuprante-fallica del dammi e te la darò, mi rompo sempre facilmente e, distaccandomene, a meno che non te li stacchi per abuso tuo di potere oltraggiante la mia scelta da eremita insindacabile, caro caporal degli “stivaletti” e dei tacchi “alti”, ché si zittisca o l’ammutolirò io, franandole addosso pugni non tanto volatili ma roteanti al suo offrirmi solo dello “sfigato venale”. Le “verrò” platealmente dentro il “capitale”, la farò capitombolare, ecco la sua “tomb(ol)a” da “vincente” dei suoi coglioni che comanda a bacchetta, così imparerà a voler dar regole ammansenti da bacchettone al suo gregge di parrucconi che plagia a immagine e somiglianza del suo credersi parroco e parco, lei è solo un porco “cattedratico” del legnoso suo modo di “concepirla”, ingravidandola perché poi abortisca per mascherar lo scandalo di averglielo colato sporcando il suo già sbavato mascara e non averglielo sgocciolato sanamente fra collant da fotterla come pretendo io, troia, sì e meritante il mio “emerito” strafottente, tendendolo secco qui fra i monti, ove da montanaro me “lo” meno senza costrizioni vostre amene. Lo so, son disarmante, non mi pratichi disamine e diagnosi per tentar d’individuarmi, io sto qui rifugiato e sempre meglio che nelle sue pasticciate fighette da bacetti e trombar suo. Non mi disturbi, ora, ch’è scesa la notte fosca e crepuscolare, come piace a me, non provi a fingere d’addolorarsi per come voglio viverla, senza sue (d)istruzioni e precetti di sempre veder l’altro a preconcetto variabile del suo meteoropatico “adattarlo” ove tira il suo cazzo e non solo il vento, ché qui batte non la fiacca ma il piacere inaudito di sciogliermi abbrustolente in un caldo mio dalla nascita ambito solfeggiandomelo liscio di seghe spaccanti. Anche senz’abiti, ignudo, alla facciaccia vostra e del vostro mondo di regoluzze a cui sbatterò non le vostre puttane ma il mio uccello volante. E tu, cacciatore, prova a spararmi affinché cada, e colerò, anche di brache tue calanti, a picco. Scusa, volevo dire che, se mi darai la caccia, diverrai tu la quaglia e presto, anzi, subito, ti picchio. Abbattendo i tuoi alberi tradizionalisti da ligio al mondo secolare e “immutabile” che non previse il mio ficcartelo in viso a suo or crepitante e tremantissimo. Crepa nella tua paura! Ecco il mio “puro” nei tuoi por(c)i! Oltre che, devastandoti, in culo aperto fottuto. A tutto tondo! Sì, vaffanculo! Questa è musica, musica incalzante, a scalzar la borghesia dei suoi miti affliggenti.
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