Prefazione tenebrosa, con tendenza al macabro, quasi roseo di carne e ossuto di anima derubata eppur combattiva, quindi a tenaglia, audace, tenacissima, forse tanto (s)t(r)enue da esser collassata da un pezzo metafisico
L’ira s’impossessa di me a lunari fasi ascendenti ove il “cratere” crepita, stordendo l’avarizia altrui ad avorio livoroso della mia chioma issata in troni senza miseri trofei, la mia Lei è pron(t)a.
Son il “capobanda” dei “malavitosi”, dei pedestri e degli sciatti, perversione del capriccio più sofisticato, della fig’armonica, schierata in combattimenti ai filantropi, nel ventre incarnato con zucchero (in)filato, “al fulmicotone” sì fulmino i processi imborghesenti di tanto schifoso “detergervi”, poiché son io l’erezione “cosm(et)ica” che fluttua giocosa, trastullante, schiva e scheggiante contro chi non m’è affine manco per l’anticamera più intermittente di un’anima sua ripudiata come tutti questi dementi e, in battagliero morderlo, turbarlo di quanto turlupinò i cuori nostri sonanti.
Sbandierati a incastrar quelli a noi non elettivi, amenità naviga qui per la congrega “malfamata”, serpentesca e di lupi spelacchiati con occhi a voi odiosi. Pernicioso, oh mio nemico, soffri d’anemia alle sensualità. Alla mia vita e alle mie mic(c)ie. Ti minaccerò perché così (mi) tira e va ove sai che già, entrandoti, addolorato sei or che fottuto.
Che cornuto! Mai quanto il Diavolo, che la punta e lì vola, tutte le spunta e, di magnifiche fighe magnetiche a sputi propedeutici, stupra docile quel che la tua falsa “dolcezza” invoca e mai in bocca godrà.
Il Maestro si prostra in nostr’adorazione per Lui, il solo mai abbellito dietro maschere ruffiane ma invadente a smaltarvi il ferale sorriso a suo diletto per neri mantelli belli.
Musicando come i commedianti qui a me fratelli, uniti in segno “discinto” di Pace, lodiamoci in gloria, osanniamo lo “strapiombo” in cui, volenterosi e alienanti allenatissimi e di lene noi bianche balene, dallo sporco Mondo di voluttà finissima precipitammo a iena infervorata di lor orifizi e faziose caste soltanto facinorose nel travestimento da “buoni” che, del pacifismo, han traviato il “senno” e neanche più son allattati da quei seni a me così insinuanti, da leccarli in “morigerate” labbra e poi d’avidità entrarle in penetrazione famelica e agguantante ogni di Lei sbavante berlo c(r)ol(l)ante, attenuandole le gote ché rassodi il fremito e baci il “nevischio” nel singhiozzo orgasmico del lento e dunque presto svestirlo a sua svelarla, suonarla e di carica, senza dubbio, di Notte accesa scoparla. A groppe di mio “gobbo”, lurido nelle cosce che, svelte, inguainano lo sguainar a(r)mato di cotanti pleniluni “candidi”, stroboscopi nel “ballarlo” funesto scopantissimo, d’arbusti incendiar quel che Lei, già calda, ad arroventarlo ne scote le vene, prima inaridisce il goloso mio inturgidito, poi di torpido l’inietta dentro a vostro “vomito”, ché fiammeggiamo su(p)ini nei calanti monti del lagrimar ardente in altro “arido”, svenato d’ariosità e funamboliche, ginniche, aeroplaniche turgidezze, l’involarci intrepidi e non intiepidirlo nella sua moribonda a brillar d’esondarci, ridondanti e d’eccessi irosi, adirata la sua figa mi scotenna e il pen tonante, di lì raschiante in grotta melodica, urlandosi si ciba allietato e di Lei unto a congiunzioni irruente, oniriche e scandenti il cadenzar della vostra (s)cadenza prominente invece qui assieme, miei prodi e non porci, anche a capezzoli lisci di tanta Bellezza burrosa, materna e lussuriosa, caprino in gola, di sperma rubino e birichino nell’arruffarla in quanto sia riccio e intrecciato per gravitarle asmatico di “lacci”. Non come voi, insensibili e “dinamici” algidi solamente al termico gelo dell’inganno vostro a placarvi, frenar la carne di “forza”, quando sapete bene che il pene è quel che bontà Lei vuole anche di gran florida volontà.
Con cazzo sciorinante fragorose febbri, insonnie taumaturgiche d’una sua dormienza da me risvegliata, fresca e litanica, liturgia dei sessi e madornali, marmorei schizzi.
Infreddoliti, il Maestro ordina l’orgia. Accoppiatevi come belve e sfamate il di mio… appetito, voi donne inappetenti da Tempo e qui sacrileghe ché, blasfemo, accechi gli orbi “giganti” nani come Polifemo, poveri fessacchiotti solo nei lor infantili giochetti d’occhiolini, e Lei si chinerà a varichina valchiria e sempre vibra la vagina… liscia e di oliante nello sverginarlo.
Sono un figlio di puttana conclamato. Quindi, donne, ungete le mani e unitevi ove le mie palperanno ciò che a voi non è permesso dare, rassodar e ficcante dei “rintocchi” toccanti.
Sotto la doccia, Lei si spoglia nuda e io già l’ebbi quando crebbe in voi, i quali v’auguraste “coagulati” che non si squagliasse e inumidisse duro come il battito in sciolta armonia a “buttarci” via. A bollori di titanica Lei mia in Ercole che se la fotte e un’altra Notte passerà di tante passere solitarie. Prostratevi, voglio, voglio quel che tutti invoglia, la crostata millefoglie. E gliela sfoglio.
Applauso al Maestro. Il Maestro dà le sue perle ai porci. I porci lo ricattano perché di ricotta il suo non scotti, eppur è la mascotte d’ogni donna riscattata e or cottissima, in quanto il Maestro abbina il cremoso bignè al cioccolato fondente delle vostre gelose, (non) ingelatinate…, matte insoddisfatte da scremanti che invan plagiaste e di plastica tornaste, ché di Lei agognan la lattea monta(ta) per tornirla ma in valle piangon non torridi da tonti in tanto adesso scoprir che, dopo le curve facili dell’adolescenza, tortuosi non si dirigon drizzanti.
Io per le donne sono il “girotondo”, in cerchio ai fuochi ché loro, sfiorandomi, s’incendian femminee pure come i fiori, a foro del falò focoso dunque e un po’ “delinquente” di lingua nell’inguine a guar(n)irle.
Fine del poema serale, breve eppur epico in quanto di Poe lirico come suoi racconti. Spettrali per i banali, apparente di scimmia con la banana se gli scemi di me leggeran solo un (in)viso.
Son buon come un bimbo, attento al lupo che uva vuole. Quindi, vulve, voltatemi un sorriso. Vi sarò prelibatezza e vostro schietto schiaffo in faccia.
Sì, datemeli. Date a me quel che è vostro.
Firmato il Genius
(Stefano Falotico)
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