Navigami in tal mio sbraitar “sbrindellato”, bucherellami lontano dai lor “buo(n)i”, dai lor buchi ché son solo porci in cerca del tuo “fallo” e dello sbagliarti fallace per leccar falli(mentari) il tuo pisello d’“iella” oceanica nel leccar le passerine a tuo strozzato passerotto in gabbia.
Gatta-buia, in cambusa io rifletto fra gli avvoltoi opacizzanti il mio vi(b)rare lontano dalle squallide lotte inutili dei fratricidi squali guerrafondai e il mio orgoglio, puro, affondanti. Non affogo e, in mezzo a tal isterico trambusto bellico(so) d’uomini-“cannonata”, volteggio in svoltante volto a una vita che ammira i (tra)monti d’oriente, sorvolando lidi eccelsi e mirando il cielo del mio strepitoso, schizzante, fragoroso uccello schiumoso.
Dal leggiadro piumaggio, volante come un (d)ardo!
Sì, (d)ard(eggi)o nei miei arcobaleni illuminati e soffusi, non offuscati, tra rischiarate foschie sobrie e calde sfumature dai variopinti, immaginifici, soffici drappeggi morbidi.
E non soffoco! Fuoco!
Acqua alla vostra gola, miei “golosi”.
Mor(ibond)o. Vago fra quest’umanità nauseabonda, già morta, già ammainata senz’ancora… scevra della bella, splendente chimera ribalda. Io, il baldo, io Albatros.
Non passerà, il turbolento passato torna “tortuoso”, m’affligge e lo rifuggo pen(sier)oso, è una discesa infernale di marine ansie(tà) via dalla vostra umanità “libidinosa!”.
Rimembrante un periodo sin troppo cheto in cui, assediato d’arpie velenose, scalfenti il mio animo innocente, gioioso, vollero incenerirmi ferocemente, ché squittii troppo (sin)cero… mi dissanguarono come lacrime brucianti il mio cuor poderoso in ardere remoto da persone fredde, artiche, già invecchiate in lor osceno, incancrenito esser già spenti, quindi non furono già dalla nascita, son e sempre sa(ra)nno nel sonno eterno, poco etereo dei morti dentro, rotti da un’irreparabile visione distorta della vita, ché per questi è un “fiero” combattimento nauseante d’orride rivalse da puttane, di cene beffanti il “cretino” prescelto, il disarmarlo nello sputargli odi a farlo proprio della vita disamorare, il loro asettico (i)odio, uccidendo noi, i vivi e giammai vinti, “lietamente” nel morder perfino i vitali slanci retorici, loro, gli “ero(t)ici”, pedestri senz’estro, a darci degli eretici, evviva l’ieri ché non (r)esiste e a picc(hi)o urla di guerra rabbiosa nel sognare un migliore (do)ma(n)i, non do(r)miamoci, ammazziamo questi stronzi di massa, loro, i macellai degli “uccelli” nostr(om)i che voglion volar liberi.
Vo(g)liamo!
Librate, amici miei, gabbiani solitari, lontano da chi v’avvelena d’ipocondrie, vi(t)a dalle opprimenti, vili sommergenti gabbie “virili”, loro a tramandarci superstiziose ubbie, andiamo a Gubbio, città medioevale dal fascino immortale e (s)colpiamoli a castelli di svettante bellezza antica, come noi, restaura(n)ti in moderno sempre perpetuarci mai sgretolati dalla fatiscenza del progresso loro così, questo sì, vecchio e (d)istruttivo.
Ci trasmettono quel letalissimo morbo lor vitale, dunque mortifero, che tanto li cagiona di triste visione sbiadita e tanto però, ritorcendola a nostra lucentezza innata, così vivamente insita brillante, ad appannarci in lor (ap)pann(agg)i lerci, sciupandoci…
Al galoppo, dai di scialuppe, basta con le vostre ruffiane “scaloppine”.
Ricordo del mio (ri)co(ve)r(o), della psichiatrica cella gelante il mio “uccello rovente, nel vento, della cura del cazzo “geriatrica” a volermi sigillar “in vitro” in una cella asfittica, imprigionante la mia anima (im)mobile, contemplativa, serena-mente propria in me così nato, anzi, natio della trascendenza, dell’esoterico incarnarmi a “teso(ro)” giustissimo d’un congenito splendore che offuscar vollero da ricattatori.
Da “torelli”.
Amen…
di Stefano Falotico
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