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Una città accanto al mare

City

Cinto dalle recinzioni coercitive del mio cuore nostalgico, rimesto nel fluttuante, torpido passato. E, dallo “scucirlo”, sdrucito, scurito rinnovarlo di famelica luce potente, si rischiara, la dissolutezza in cui affogai or si dipana lucida e lambisce vette, ancor solitarie, sì, ancora, però attenuatesi in un enigma labirintico di me che, dai contorti, strozzanti giorni in riva alla melanconia, scheggianti la mia anima che, mortifera, stava scolorendosi, diluita in allucinanti tremolii d’un ego disfatto, ceruleo e cinereo, adesso, guardando lassù il cielo azzurro, limpida non si (s)paventa (mal)sana, bensì, affranta ma (r)esistente, è qui tumultuosamente rinata da navigatore dei miei sogni, ancor intatti, marinaio, cavaliere intrepido che, dagl’agghiaccianti te(m)por(al)i che mi crocifissero negl’abissi “torvi” d’un “corvo” mio gracchiante la stralunata “foschia” rabbiosa, borderline, vicino alla follia, remoto dall’ubriacante stordirmi tra la perniciosa, fuorviante folla, mi rincuora e tempra, in questo tempo che man mano si rillumina suadente, nell’inondarsi, “sudato” d’energie restauratesi, fragoroso di ricordi tanto dolorosi e funesti quanto, avendoli imbrigliati nella forza dell’aver disseppellito ogni trauma ferente, “squarciando” quell’“apnea” che mi congelò in un sonno interiore lancinante, or s’abbacina ondosa e speranzose son le mie giornate meno afose, umide tuttavia di questo tiepido sentore che la magia, nel perduto tempo di tanti sofferti patimenti, sempre “ribatte” nel tentar d’abbattermi non vincendo, eh sì. Eppur appunt(it)o lo divelgo e lo mangio vivo, oggi ne discerno l’ira che m’indusse a quel creparmi solo nel mar glaciale delle emozioni sterilizzate. Ove, prima, m’indurii, cristallizzato d’apatie d’un cuore anaffettivo, o meglio inducente solo a osservar la Luna (in)dolente delle mie auto-afflizioni perenni, qui si rinnalza in gloriosa, estatica rinascenza solare. Soave…

Arcipelago nella convalescenza del mio tuttor (in)stabile mo(r)to dentro, navigo indaffarato a “evirar” pensieri suicidi, sudici, quei pensieri ch’imbrattano e imbrogliano la levità del levriero esser felici, più spensierato non mi crogiolo più nella fatiscenza fatua di quell’apatia vana, nel vento fischietto l’aroma d’un nuovo sentirmi io stesso amore, abbracciando scogliere bagnanti il piacer, da immemorabile tempo negatomi, dell’insaporirmi nei luccichii abbaglianti d’una mia anima accoratamente ripulsante gioie dimenticate.

Fremendo in questa burrasca, dopo mille batoste tuonanti e spaccanti, ancor sopravvivo e soprattutto (mi sento) viv(id)o, nitrendo l’argenteo risplendere delle mie nuvole emotive qua ora rasserenatesi dopo mille, tumefacenti tempeste.

Eruttivo, dirompo ancor a galla, anche a gallo di vanità non perse, dalle quasi deperite mie voglie, risorgo torbidamente vivente, (tras)lucido accanto alle onde di nuovi (bi)sogni bellissimamente tremendi.

 

di Stefano Falotico

 

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